Intervista per Genius Online

Il suo peggior nemico è il titolo del nuovo romanzo noir di Veit Heinichen, che sarà nelle librerie italiane dal 6 novembre. Ultima fatica dello scrittore tedesco, ormai naturalizzato triestino, racconta l’ottava avventura del commissario Proteo Laurenti alle prese con l’ingombrante morte dell’imprenditore Franz Spechtenhauser, ex senatore della Repubblica Italiana, saltato in aria sul su Cessna dalle parti di Prosecco una mattina di maggio.

Abbiamo incontrato Veit Heinichen per parlare del nuovo romanzo, del noir, della sua vita e della città che ormai è diventata sua, Trieste, e che ha fatto conoscere in giro per l’Europa.

Siamo ormai al tuo ottavo romanzo, non ti sei ancora stufato del Commissario Laurenti? Dopo un tentativo di ucciderlo qualche romanzo fa, questa volta gli hai affiancato un nuovo personaggio femminile. Chi è?

E’ una donna di nome Xenia Ylenia Zannier che ha una biografia molto particolare: è nata orfana la notte del 7 maggio del 1976 sotto le macerie di Gemona, durante il grande terremoto del Friuli, salvata grazie a un cesareo d’urgenza. Il primo vagito della vita di Xenia corrisponde all’ultimo respiro della madre. Il cadavere del padre verrà trovato solo qualche giorno dopo, ma la sua figura forgerà la vita della figlia per seguire le orme paterne diventa poliziotto. Cresciuta dalle parti di Oslavia e perfettamente trilingue, Xenia dopo la maturità si iscrive alla scuola di polizia di Trieste, prosegue a Padova e, dopo gli attentati a Falcone e Borsellino, viene trasferita in Sicilia. Per l’avanzamento di carriera si sposta a Roma, dove avrà anche il suo primo incarico come commissario capo a Ostia, un luogo che ci ricorda del delitto Pasolini, di cui quest’anno c’è il triste quarantesimo anniversario.

Come mai l’idea di affiancare a Proteo Laurenti una donna ?

L’idea di Xenia è nata nel mio cervello qualche anno fa, affascinato dalla sua personalità borderline in tutti i sensi, perché soffre di una grave forma di claustrofobia che le impedisce di andare nei centri commerciali e che la obbliga a fare a piedi le scale, anche se si tratta di un grattacielo di trenta piani, perché non riesce a prendere l’ascensore. Sul lavoro riesce a tenere sotto controllo questo problema solo attraverso una ferrea autodisciplina e grazie all’adrenalina. E’ molto allenata ed è una grande lettrice di politica, sociologia e storia ma detesta i romanzi.

 Perché detesta i romanzi?

Per i suoi gusti i romanzi in circolazione sono troppo poco realistici, soprattutto quelli etichettati come “gialli” perché sono troppo distanti da quello che vede nel suo lavoro. Secondo lei i gialli sono favole della società moderna.

 E qual è la tua opinione sul romanzo giallo?

Per certi versi condivido la sua posizione, fin da bambino infatti non credevo alle fiabe, protestavo quando me le raccontavano e non capivo chi ci cascava. Tuttavia nel giallo ci sono diversi modi di avvicinarsi a questo genere. Io sono più interessato al noir in cui il racconto non è concentrato sulle solite tipologie di personaggi: delinquente, vittima, investigatore. Nel noir è il quarto gruppo il più importante, la società coinvolta nella trama. Tutti facciamo finta di non essere toccati dal crimine, mentre la società civile  non risolve niente voltando le spalle ai problemi e mettendo la polvere sotto il tappeto.

 E nel mondo reale c’è molta criminalità, quella non manca mai…

Oggi stiamo assistendo a una trasformazione e una modernizzazione del crimine molto rapida, al punto che è in costante aggiornamento. I delitti sono cambiati, si sono modernizzati, e riguardano anche l’ambiente legato alla finanza. C’è un legame sempre più stretto tra l’economia, la politica e la criminalità organizzata. Soprattutto quest’ultima non è più la folkloristica organizzazione nazionale del Padrino ma una multinazionale che non trascura nessun aspetto del mercato, e soprattutto è diventata assolutamente internazionale.

Qual è il tuo primo approccio ai tuoi romanzi ?

Io parto sempre da una ricerca approfondita degli argomenti toccati  dai miei romanzi perché, avendo come modello di riferimento la realtà, sento questo passaggio come un nobile obbligo nei confronti del lettore. Questo rispetto mi permette, oltre all’intrattenimento, di costruire con i miei lettori un legame di fiducia in cui essi possono considerare come reali i fatti politici, storici e criminali descritti. E magari ciò stimola in loro una riflessione e un approfondimento su determinati temi che rischiano di passare inosservati.

 Secondo te c’è differenza tra noir e giallo?

Il mio quadro di riferimento è il genere noir che si distingue fortemente dal giallo nel senso che nel giallo la narrazione inizia in un mondo in disordine, ma alla fine del romanzo tutto torna a posto. Nel noir è tutto completamente diverso, il cattivo non va sempre in carcere: per il genere noir l’inizio è un caos enorme, la fine un caos ancora maggiore. E di solito a questo punto per l’autore arriva il divertimento, ma talvolta anche la disperazione. Anche per questo motivo mi rifiuto di descrivere il mondo dei miei personaggi dall’alto della mia nuvola di narratore, voglio capire il mondo in cui vivo perché come romanziere il mio prodotto è sempre lo specchio di una società, di un’epoca e di un’area geografica: la mia si chiama Europa e fa parte del mondo ormai globalizzato.

Nel romanzo Il suo peggior nemico, che uscirà il 6 novembre nella traduzione italiana, troviamo anche un altro territorio oltre a Trieste. Qual è?

Ci sono tante terre coinvolte nella nuova trama, non solo il Friuli Venezia Giulia, ma anche la Baviera, l’Istria, una parte del litorale sloveno, una parte dell’Austria, e soprattutto il Trentino Alto Adige/Südtirol. Zone che hanno in comune il loro essere di frontiera e transfrontaliere con la consapevolezza di esserlo e con la necessità di confrontarsi con l’Altro nel corso della Storia. Il Trentino Alto Adige, in particolare, è il luogo in cui sono nati due personaggi del romanzo e ha in comune con il Friuli Venezia Giulia le sofferenze sotto i crescenti nazionalismi in Europa che sono culminati con i crimini avvenuti durante il fascismo e il nazismo. Ma i punti di contatto sono continuati anche dopo la fine della guerra con il comune abuso di argomenti nazionalisti da parte delle forze politiche estremiste. Ricordiamo che l’Alto Adige/ Südtirol era una tappa  importante della cosiddetta Ratline, la linea dei topi, da cui venivano fatti fuggire i più grandi criminali di guerra, tra cui anche Priebke, di cui non sappiamo ancora che fine abbia fatto il cadavere. E’ significativo che, come altri criminali,  anche lui avesse casa in Alto Adige. Queste fughe erano organizzate congiuntamente dai servizi segreti internazionali e il Vaticano, con il contributo di una parte della popolazione che rimaneva ostile e propensa al negazionismo. Ma veniva anche gestita da un grande governatore della Baviera, Franz Josef Strauss, morto nell’88, uno dei più corrotti politici tedeschi ma intoccabile che tramite una sua fondazione organizzava anche i finanziamenti ai Bombaroli del Südtirol.  Sotto la sua protezione c’erano anche alcuni campi di addestramento  fascisti, neofascisti, nazisti, neonazisti internazionali, dagli ustascia croati fino ai neonazisti tedeschi e neofascisti italiani.

E questi due personaggi?

Per loro l’Alto Adige è un punto di partenza, perché ormai entrambi hanno un’età intorno ai settant’anni e si sono trasferiti abbastanza giovani nella zona di Trieste e del Carso. Uomini  d’affari, uno è politico e senatore per il Volkspartei a Roma, che ha sempre cavalcato e abusato il tema dei nazionalismi e soprattutto del dolore e della paura della gente; l’altro invece è uno scienziato e un grande ricercatore. Insieme hanno creato un’azienda con sede a Bolzano e Washington che si occupa di mezzi di comunicazione, come ufficialmente li definiscono, in parole povere, invece, creano mezzi di sorveglianza e intercettazione, comprate da Gheddafi e altri tiranni nel mondo per sottomettere il popolo, e altre tecnologie che hanno acquistato anche gli americani, soprattutto l’NSA (National Security Agency, ndr). Uno dei maggiori scandali attuali è proprio questo: siamo diventati trasparenti grazie al business della comunicazione.

Uno dei temi che ricorre nei tuoi romanzi è il confine, condiviso anche a livello biografico con alcuni dei tuoi personaggi. Tu sei nato vicino al confine e hai girato il mondo, cosa vuol dire?

Io sono nato nell’estremo sud-ovest della  Germania, al confine con la Francia e la Svizzera, lì dove nasce il Danubio e poi per lavoro ho vissuto a Zurigo, Parigi e varie città tedesche. Ho fatto tredici traslochi nella mia vita. Ho vissuto in quattro paesi diversi, sempre per motivi diversi, quando ero editore, imprenditore e Trieste ormai è diventato il luogo a cui mi sento più legato. La mia vita è una predestinazione borderline: chi nasce vicino a un confine, subisce una differente formazione dell’anima diversamente da chi cresce in zone interne e, forse, più monotone dove c’è meno interscambio, meno contrasto, meno incontro. Noi a Trieste troviamo questa diversità tutti i giorni anche nei i piatti che mangiamo, in cui si mescolano le influenze europee. Inoltre più approfondiamo le nostre conoscenze sul cibo più scopriamo e impariamo sulla storia culturale di un territorio. Inoltre viviamo in una zona in cui camminando in città sentiamo parlare almeno due lingue. A Trieste la letteratura è sempre nata in idiomi diversi: il Rimbaud del XX Secolo Srečko Kosovel o Boris Pahor, Ivo Andrić, per undici anni ha vissuto qui James Joyce, c’era Sigmund Freud, poi i triestini Umberto Saba, e soprattutto Italo Svevo che non parlava sicuramente l’italiano di Firenze. O ancora un grande della letteratura del Novecento Bobi Bazlen, che scriveva le sue opere in parte in italiano e in tedesco; Stendhal, o Giacomo Casanova  che scrive in francese L’histoire de ma vie. Solo per accennare alcuni esempi.

Come definire quindi le identità di confine?

L’identità dei territori di confine non soddisfa tanto chi cerca un’identità chiara, coloro che ignorano che  la diversità è ricchezza. Questa identità è composta di tante identità diverse, in cui proprio tale diversità è fonte di arricchimento reciproco e definisce noi stessi. Anche le emigrazioni, che ci sono sempre state, rafforzano questa tesi: io inorridisco quando sento le parole “sono orgoglioso di essere italiano” oppure “Ich bin stolz, ein Deutscher zu sein”. Non è merito di nessuno. Si nasce in determinati luoghi per puro caso: chi nasce nelle zone di frontiera sa che è stato frutto di un accidente se la cicogna ha deciso di lasciarti da una parte o dall’altra del confine. Non c’è nessuna ragione di essere orgogliosi, soprattutto guardando tutti gli scempi che sono stati fatti nei secoli in nome dei nazionalismi e della megalomania. L’importante è conoscere ed essere consapevoli delle proprie radici, perché queste non sono modificabili, tutto il resto è esclusivamente frutto del nostro lavoro, della nostra esperienza, di cui eventualmente possiamo anche essere orgogliosi.

Prima citavi James Joyce, che condivide indubbiamente una passione con alcuni protagonisti dell’ultimo romanzo: il vino. Come mai questa attenzione particolare?

Vi racconto solo una delle scene del libro a titolo d’esempio: uno dei protagonisti di origine altoatesina Spechtenhauser muore in un incidente e da ex senatore e uomo di potere, Cavaliere come quell’altro, per lui vengono organizzati i funerali di stato nella Basilica di Aquileia a cui viene invitato tutto il mondo “che conta” e anche chi deve esserci per forza, per non perdere la faccia mancando all’evento mondano dell’anno. Durante la funzione, mentre anche l’ex premier tiene un discorso, due piccoli imprenditori un po’ zoticoni si annoiano e uno domanda all’altro ”ma poi di che cosa sarà morto, Spechtenhauser” e l’altro risponde “Gewürtztraminer!”

A proposito di incomprensioni, nei tuoi romanzi giochi molto spesso con gli stereotipi: quelli dei tedeschi sugli italiani e quelli, provati sulla tua pelle, che gli italiani hanno sui tedeschi. Cosa pensi degli stereotipi in generale?

Sono molto divertenti perché spesso sono lontani anni luce dalla realtà, altre volte invece fanno piangere perché sono scuse persistenti dietro ai quali ci si nasconde per non guardarsi bene da vicino. Solo nel pregiudizio rispetto all’Altro questi popoli si dimostrano uniti, in altre circostanze invece qualche lombardo puo’ anche essere molto seccato di essere italiano come qualche campano o qualche calabrese … o un bavarese in confronto di un prussiano… Con i clichés si vive superficialmente e si condannano gli altri perché la colpa non è mai propria, nessuno pulisce davanti alla propria porta, indipendentemente dalla nazionalità. Sono ridicoli, soprattutto se, come nel caso del Gewürztraminer, si riescono a inserire in un dialogo la cui comunicazione fallisce completamente a causa delle barriere linguistiche e culturali. Ancora una volta la zona di confine dimostra che le generalizzazioni e i cliché sono solo una perdita di tempo perché porta al cortocircuito e alla contraddizione in termini.

Quale importanza hanno secondo te le contraddizioni?

Secondo me sono fondamentali, per esempio se osserviamo da vicino la letteratura nasce sempre in luoghi ricchi di contrasti e contraddizioni. Se anche consideriamo le letterature nazionali, per esempio quella tedesca prima della caduta del muro di Berlino era una pomposa autoriflessione che troppo spesso culminava in masturbazioni mentali. Con le voci e le esperienze nuove dopo la caduta del muro è cresciuta una nuova letteratura, che ha accantonato l’eterna sega mentale rivolgendosi a discorsi maggiormente improntati alla contemporaneità e sicuramente di maggiore utilità. Anche il noir in questo senso ha conquistato terreno, convincendo molti. Certo non tutti, perché anche nei confronti di questa letteratura permane un cliché legato alla profondità della vasca da bagno in cui viene a volte avviene la sua lettura. Niente in contrario, la libertà di scelta è un diritto del lettore. L’importante è che, come tutti i cliché, anche questo può essere ribaltato in maniera banale: il noir è un genere molto più antico di quello che vogliono farvi credere. Non è nato nell’Ottocento,  il viaggio degli Argonauti e gran parte della mitologia greca hanno tutte le caratteristiche del genere. E, certo, se poi pensiamo che il Libro più importante della cultura occidentale inizia con un fratricidio e continua con un padre disposto a sacrificare il proprio figlio, pieno di truffe, cornuti, omicidi e traditori, ancora una volta viene suffragata questa tesi. La tradizione deve essere umana e deve far parte della natura umana anche l’accettazione dell’abisso che ognuno porta dentro di sé. La vita non è solo un idilliaco mondo di fiabe, nella realtà ci sono anche i peccati. E questi ultimi in verità sono il vero piacere tanto del lettore quanto del narratore.

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