Wuz

Accarezzò la canna quasi con tenerezza, si posizionò sulla piazzola, diede uno sguardo al telemetro e regolò l’arma. “Questo fucile di precisione cambierà il modo di fare la guerra. Leggero da trasportare, veloce da montare e rapido da caricare, maneggevole, preciso e con un silenziatore così potente che sparare fa meno rumore che stappare una bottiglia di champagne”.

Si legge di volata il quinto episodio della serie che ha per protagonista il commissario Proteo Laurenti. Il titolo del nuovo romanzo dello scrittore tedesco Veit Heinichen che vive a Trieste è Danza macabra e ben si addice al balletto di morte delle pagine finali, collegandolo con l’affresco medievale della chiesetta di Hrastovlje che Laurenti visita all’inizio. Così come suggestiva è la copertina del libro, con quello che forse è il più famoso tram d’Italia che si arrampica sulle colline carsiche fino all’abitato di Opicina – scenario di ben due momenti chiave e mozzafiato del romanzo.
L’avvio della vicenda è piacevolmente lento e, come negli altri libri della serie, i problemi personali e famigliari di Proteo si mescolano a quelli del suo lavoro. Il fatto che la sua amante di oltreconfine, il sostituto procuratore di Pola Živa Ravno, gli dica, proprio dopo aver visto la Danza macabra di Hrastovlje, che ha deciso di mettere fine alla loro relazione, non mette certamente di buon umore Proteo Laurenti. Che si trova ad affrontare parecchi casi tutti insieme – e qui sta, da un certo punto di vista, la parziale debolezza del romanzo. Perché, se è vero che la quotidianità è sfaccettata, c’è tuttavia rischio di dispersione nel portare avanti parecchie tracce in un romanzo di indagine poliziesca. E infatti, anche in Danza macabra, ne viene approfondita solo una e la conclusione ha il sentore di una resa dei conti personale. C’è la questione degli immigrati clandestini e del lavoro nero, c’è un non ben definito spionaggio industriale, c’è il caso della giornalista ridotta in coma a colpi di stoccafisso, il caso di molestie nei confronti dell’ispettrice Pina Cardareto. E infine – riflettori accesi sul caso più importante: riappaiono in scena i fratelli Drakic ed è subito chiaro che non potranno restare tutti e tre sul palcoscenico alla fine, Tatjana e Viktor e Proteo. Ci sono criminali che, a meno che non muoiano, risorgono sempre dalle ceneri. E si sono fatti ancora più scaltri e agguerriti. Viktor Drakic gestisce i suoi affari da un isolotto al largo della costa croata, una sorta di Napoleone che trae enormi profitti dal traffico di esseri umani, droga, armi e (tempismo eccezionale nella scelta dell’argomento da parte di Veit Heinichen) smaltimento dei rifiuti, tossici e non. Con l’aiuto della sorella che ha cambiato il nome in Petra Piskera insieme ai connotati fisici e svolge ufficialmente funzione di console di un piccolo e sconosciuto stato dell’Europa dell’Est. I ballerini della danza della morte sono dunque i due fratelli e Proteo in quella che diventa, nella seconda parte del romanzo, una lotta personale supportata da una parte dagli scagnozzi di Viktor e dall’altra dalla minuscola e intraprendente Pina e dal bisbetico ma sempre efficiente dottor Galvano. Si trema per la sorte di Proteo, ci si indigna per il tentato stupro a sua moglie, si ride con Galvano. Si gode, con un piacere squisito, degli scorci di mare e di vigneti e di altopiano carsico. Si gustano piatti di pesce e si sorseggia buon vino. E…riuscite a immaginare la velocità di un’auto in fuga lungo le rotaie del tram che scende da Opicina? Bene, è quella del romanzo.

Prime pagine

Buoni amici Era l’anno in cui i tedeschi, per vendicarsi con gli italiani di Trapattoni, rifilarono a Roma un papa “made in Germany”. Un pastore tedesco in cambio dell’Allenatore. Nonostante fosse nervoso, Proteo Laurenti scoppiò a ridere quando sentì alla radio Sua Santità con le scarpe di Prada dichiarare che «la chiesa cattolica non è una minestra riscaldata». Se non altro, la grammatica era corretta. Laurenti abbassò il volume e, a bordo della fiammante Punto blu di sua moglie, oltrepassò il piccolo posto di frontiera di Prebenico sotto il castello di San Servolo. Le sbarre erano alzate e non c’era ombra di doganiere; in fin dei conti avrebbe anche potuto prendere l’auto di servizio, evitandosi di dover inventare delle misere scuse con Laura perché gli prestasse la sua. Di lì a un quarto d’ora avrebbe incontrato Ziva Ravno, sostituto procuratore croato di Fola. La loro relazione andava avanti da quasi quattro anni. Un rapido calcolo del tempo passato rese Laurenti ancora più ansioso. Per mesi Ziva, di oltre quindici anni più giovane di lui, si era fatta desiderare, e alla fine, dopo una lunga trattativa telefonica, gli aveva pro­posto di incontrarsi in una valletta sul versante sloveno, dove la grigia pietra calcarea del Carso diventava d’un tratto fertile e gli alberi da frutto, vite inclusa, crescevano rigogliosi. «La piccola chiesa fortificata di Hrastovlje» aveva detto. «Voglio che ci incontriamo là». Laurenti ripetè fra sé quelle parole mentre maltrattava la Punto lungo la stradina tutta curve. Nonostante la razionalità che la caratterizzava sul lavoro, Ziva aveva un debole per i gesti teatrali. «Quella chiesetta è la bibbia della gente semplice, degli illetterati. Affreschi del XV secolo, incredibilmente belli, con scene dall’Antico e dal Nuovo Testamento. E una Danza Macabra che va dritta al cuore. Vivi a Trieste da trent’anni e non ci sei mai stato. Dovresti vergognarti. È appena dopo il confine». «E perché proprio lì?» aveva chiesto Laurenti. «Perché non ci incontriamo semplicemente in un albergo sulla costa, come facevamo un tempo?». La risata di Ziva, prima che rispondesse, suonò forzata. «Non mi va. Per quello che devo dirti è meglio Hrastovlje». Laurenti non era riuscito a chiederle altro, lei aveva chiuso la conversazione con la scusa di un appuntamento urgente. Sulla costa splendeva il sole, ma sulle colline dell’entroterra istriano si erano addensate nuvole gravide di temporale. In lontananza Laurenti poteva già vedere il campanile dal tetto piramidale che spiccava sulla muraglia intervallata dai resti di poderose torri difensive. Era in ritardo di dieci minuti, tut­tavia non notò altre macchine nel parcheggio ai piedi del colle su cui troneggiava la chiesetta. Chiuse la Punto e si guardò intorno. Fino a quel momento Ziva era sempre stata puntuale, al contrario di lui. Laurenti selezionò la rete slovena sul cel­lulare e si avviò di malavoglia su per il sentiero. Si fermò per­plesso davanti al pesante portone di ferro battuto chiuso da un lucchetto. Sotto il simbolo di una macchina fotografica sbarrata da una grossa linea rossa era appeso un piccolo car­tello bilingue con il numero del custode. Cominciarono a cadere le prime gocce di pioggia e Laurenti decise di non aspettare Ziva. All’altro capo del telefono una voce di donna gli comunicò che entro cinque minuti sarebbe arrivata ad aprirgli. Per un attimo si domandò se non fosse meglio aspettare nella gostilna che aveva visto più in basso, poi decise di appiattirsi contro il portone e ripararsi dall’acquazzone sotto l’arco di pietra.